Il Covid-19 può lasciare strascichi nei pazienti guariti, a volte anche particolarmente difficili da gestire. La maggior parte dei pazienti si trova a dover affrontare il Long Covid, una sindrome post guarigione che riguarda non solo il sistema respiratorio ma vari organi, fra cui il cervello.
Sappiamo infatti che il SARS-CoV-2 può colpire il cervello in maniera anche molto grave, con ictus e encefaliti. Ma l’infezione può causare manifestazioni neurologiche più lievi, come cefalea e perdita di olfatto e gusto, che possono persistere anche dopo la guarigione conclamata. Oltre questi sintomi, si possono manifestare segni di tipo psicologico e cognitivo.
Uno dei segni di danno a livello cerebrale è rappresentato dalla “nebbia cognitiva”, un effetto neurologico legato all’azione di risposta infiammatoria al virus. La caratteristica più evidente è una mancanza di lucidità, difficoltà a ricordare le cose e a concentrarsi e di un senso di stanchezza.
Alla base del nuovo termine “nebbia cognitiva”, frutto della necessità di creare un linguaggio per marketing, si nasconde il concetto di Neuroinfiammazione, già noto in medicina. La neuroinfiammazione, presente anche nel diabete e nelle malattie metaboliche in generale, è un’attivazione del sistema immunitario a livello cerebrale, che persiste anche dopo l’infezione. Le molecole infiammatorie (citochine) nel nostro organismo hanno un’emivita che varia dai 60 ai 120 giorni successivi all’evento scatenante. Prodotte dal nostro corpo, agiscono come tossine anche se nella prima fase sono il frutto della guarigione, nel proseguire la loro presenza generano danni anche per il cervello. La conseguenza è l’insorgere di comportamenti tossici e dannosi delle cellule nei tessuti cerebrali, i cui effetti potrebbero durare per molto tempo e che si manifestano nel cambio di comportamenti.
Provate per un secondo a immaginare di essere rinchiusi in una stanza, in un letto di ospedale, senza possibilità di contatti con il mondo esterno. Non avete la TV, intorno a voi malati messi meglio e peggio di voi, non avete libri da leggere per tenere la mente attiva, o riviste perché tutto ciò che entra in contatto con voi deve essere considerato infetto e gettato via; se siete fortunati vi permettono di tenere il cellulare, ma la vostra condizione cognitiva non vi consente di andare sui social o chattare con gli amici. La vostra diagnosi è più simile a una sentenza, dal momento che dopo la scomparsa dei sintomi, la negativizzazione del tampone può sopraggiungere anche dopo un mese. Ora immaginate di restare in questa stanza per diverse settimane. Dopo pochi giorni vi limiterete a espletare le funzioni primarie per la sopravvivenza, quali mangiare e dormire. Il vostro corpo è sotto attacco, il sistema immunitario cerca di combattere, ma nel frattempo la vostra lucidità si sta smarrendo. Iniziate a vivere aggrappati ai ricordi ed emergono errori che diventano giganti emozioni, rifate il percorso della vostra vita a ritroso fino a raggiungere il primo vagito.
Questo è quello che provano i pazienti ricoverati per Covid. La mente divaga e si comincia a pensare. Ma a cosa? Non c’è più presente, non si intravede il futuro. Pertanto il paziente si immedesima in situazioni ormai andate e rivive ricordi del proprio passato. Ricordi spesso infelici, perché ormai la mente è condizionata a vivere il peggio. Lo stato d’animo di questi pazienti è totalmente negativo e come tale influenza il paziente anche a livello psicologico.
La combinazione dei due sistemi neuro e psicologico diventa una bomba. Lo stress fisico si ripercuote sullo stress mentale e tutto si riflette a livello organico.
La sensazione di malessere pertanto può persistere anche dopo la negativizzazione al virus. In alcuni casi i pazienti accusano disturbi della memoria a breve termine, dimenticando strade, percorsi, o numeri di telefono che, prima della malattia, si conoscevano a memoria. In altri si evidenzia uno stato di confusione, perdita o incapacità di mantenere l’attenzione e la concentrazione o difficoltà a terminare qualsiasi azione si inizi, questi comportamenti possono essere transitori ma rischiano se non capiti ad attivare processi di cambiamento, assunzione di farmaci e cambi caratteriali che possono diventare permanenti; se la persona non viene accompagnata in questa conoscenza potrebbe spaventarsi e adottare comportamenti compensativi sbagliati. Una situazione come questa è estremamente debilitante nella quotidianità.
Oltre ai pazienti bisogna tenere conto degli operatori sanitari, che lavorano per tantissime ore indossando vari dispositivi di protezione individuale contro la trasmissione del Coronavirus. In questo caso sono da considerare anche le condizioni di lavoro: è differente lavorare con la mascherina e ragionare senza condizioni di costrizione, rispetto al lavorare in situazione di pericolo, sotto stress e con condizioni di disagio, completamente bardati e compressi da tute e vari dispositivi di protezione. Lo stress mentale si ripercuote sullo stress fisico e provoca cambiamenti a livello organico. In uno studio recente il 61% degli operatori che hanno prestato servizio a vari livelli durante la prima ondata della pandemia si sono rifiutati di proseguire durante la seconda, mentre degli operatori che hanno continuato a lavorare in simili condizioni anche nella seconda ondata il 55% mostra deficit della memoria e dell’attenzione e una diminuzione della reattività.
In caso di sintomi simili alla “nebbia cognitiva”, per i medici neuroinfiammazione, è bene indagare sulle cause a livello molecolare per intraprendere un percorso di guarigione completa e ritornare alla vita di tutti i giorni nel pieno delle proprie capacità e funzionalità.
Un approccio terapeutico per alleviare la sintomatologia da neuroinfiammazione è rappresentato dalla fotobiomodulazione. La fotobiomodulazione utilizza il passaggio non invasivo di luce a basso flusso sulla superficie cerebrale corticale; l’esposizione dei tessuti permette di aumentare il metabolismo cellulare e promuove una serie di benefici, uno tra questi è l’effetto antinfiammatorio.
NIR Infrared, progettata da Cerebro®, startup italiana nel campo delle Biotecnologie in Neuroscienze, sfrutta la fotobiomodulazione per ridurre la neuroinfiammazione e i disturbi ad essa associati, quali disorientamento, perdita di memoria e annebbiamento mentale. NIR è dotata di 256 LED che emettono onde luminose nel vicino infrarosso per modulare il metabolismo neuronale e l’infiammazione.
Numerosi studi hanno evidenziato effetti neuroprotettivi della luce NIR in varie patologie neurologiche. Tra gli effetti documentati della fotobiomodulazione ritroviamo effetti benefici sulla circolazione sanguigna a livello cerebrale, sul metabolismo dei neuroni, sullo stress ossidativo e sulla formazione di nuovi neuroni.
Riproduzione Riservata ©
di Federica Sciacca
Giornalista e Ufficio Stampa di Cerebro®
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