Da giorni si è animato il dibattito intorno ai dispositivi di neuroriabilitazione che si impiantano sul cervello per “estendere o ripristinare le capacità umane”.
Ha pesato su tutto la notizia data dallo staff di Elon Musk, (ndr. il secondo uomo più ricco del mondo dopo Jeff Bezos) oggi a capo di Neuralink, l’azienda statunitense di neurotecnologie: Musk ha infatti affermato che conta di impiantare entro il 2021 il primo chip Neuralink nel cervello umano, proclamando che servirà a curare l’Alzheimer e la depressione.
Procediamo con ordine e vi diciamo la nostra, il punto di vista di esperti di Neuroscienze® e di “attori” nel campo dei dispositivi neuroriabiliativi.
Prima cosa: in tema di malattie come Alzheimer, depressione, Parkinsons etc.., siamo convinti che sia sempre e in ogni caso doveroso abbassare i toni. Si tratta di malattie rilevanti, dal punto di vista dei numeri, ma non solo in termini- ahimè di fatturato- ma di persone. Perché di persone si sta parlando. Siamo convinti che, al di là delle validazioni scientifiche, quando si entra in questi territori, così vischiosi e intrisi di dolore, i proclami siano sempre pericolosi. E ingiusti.
Frasi come “curerà l’Alzheimer” non possono non definirsi tali. L’Alzheimer non si cura e non si urlano false speranze a persone che ne soffrono.
Ci sono metodiche convalidate, certo, che funzionano nella gestione della patologia, attenuano il tremore, migliorano l’andatura, la postura, questo sì. E ben vengono ma, e qui arriva il secondo punto, siamo sicuri che degli impianti cerebrali possano estendere o ripristinare le capacità umane?
Non poniamo una questione puramente etica, ma fisiologica.
Davvero- per dirla in altri termini- le “innovazioni” che provengono dal mondo scientifico oggi si risolvono nell’impianto- che non può essere altro che invasivo- di dispositivi per “migliorare la qualità di vita”? Cerebro® è bandiera della fisiologia, ovvero trovare soluzioni vicine ai meccanismi di funzionamento delle cellule. Da anni- ormai più di venti- siamo orgogliosi di ragioniare e studiare le capacità che il Nostro cervello ha già in sé di trovare delle strategie di compensazione, dei modi “alternativi” per raggiungere un obiettivo.
La nostra attività di ricerca va nella direzione esattamente opposta ai dispositivi da impiantare: noi cerchiamo di aiutare il cervello a riabilitarsi, ma con tecniche non invasive, indolori, che puntano ad aiutare i neuroni stessi a riorganizzarsi a seguito di una patologia, di un evento traumatico. In questa sede vale la pena ricordarlo: il nostro cervello è l’organo più bello e complesso che ci sia, è quanto di più prezioso abbiamo.
Pensate: scambia continue informazioni con il corpo e con gli ambienti circostanti, reali, digitali, persino immaginari. Possono essere segnali elettrici, biochimici come gli ormoni, oppure suoni, immagini, odori, sapori, impulsi tattili. E soprattutto ha una straordinaria- scandiamo straordinaria- plasticità residuale, ovvero una capacità di compiere la stessa azione con più aree diverse. È soltanto questione di abitudine, stimolo e di riabilitazione, appunto.
Allora, permettiamogli, con i sui tempi, in modo, di nuovo, fisiologico di trovare un nuovo punto di equilibrio. Aiutiamolo ma senza irruenza. E soprattutto senza nessunissimo dispositivo da metterci dentro.
Una riflessione finale. In Cina quando un vaso si rompe la tradizione vuole che non si butti via ma si ricostruisca rimettendo insieme ogni pezzo e, anzi, valorizzando la rottura con finiture in oro. Le finiture così finiscono per sottolineare che è caduto ma è stato ripristinato al suo stato e uso iniziale. Ecco, noi professionisti della salute facciamo questo: elaboriamo le rotture, ridiamo loro una forma il più possibile vicino a come era prima, ma senza dimenticare le cicatrici.
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